giovedì 19 maggio 2011

Gargarismi heideggeriani su Celan


Poesia e filosofia: una secolare alternanza di conflitti, accordi e reciproche indifferenze. Nel novecento ha assunto una particolare rilevanza non solo letteraria e teorica, ma anche culturale e politica il confronto fra il poeta Paul Celan e il filosofo Martin Heidegger.
Celan ebreo decide di scrivere in tedesco, lingua della madre, ma anche dei nazisti che hanno sterminato la sua famiglia. La Shoah segna in modo indelebile non soltanto la sua vita conclusasi tragicamente con il suicidio a Parigi nel 1970, ma anche lo stile e il contenuto di gran parte delle sue raccolte poetiche.
Heidegger è l’autore di Essere e tempo (1927), dell’approfondita meditazione su Hölderlin, è il teorico del “pensiero poetante”, ma è anche il filosofo che arruola, almeno per un periodo di tempo, il suo pensiero nel nazismo. Heidegger è il pensatore che incorpora nella parola filosofica quella poetica per carpire l’essenza storica dell’essere che l’astrazione della metafisica e della logica ha fatto dimenticare.
Celan sfida invece con la poesia la forza di riduzione al silenzio di eventi come la Shoah. Le sue poesie sono come un ripetuto tentativo di afferrare qualcosa di recondito e terribile che sfugge, ma anche, a volte, di lasciarlo andare per liberarsene.
Benché da diversissime esperienze di vita e anche al di là dell’effettiva corrispondenza e di un incontro che i due ebbero, a molti i percorsi di Heidegger e Celan sono apparsi se non complementari almeno confrontabili soprattutto per quanto riguardo il rapporto fra linguaggio e poesia. Su questa scia di confronti si pongono anche i due saggi di Félix Duque – Vincenzo Vitiello, Celan Heidegger (Mimesis, pp. 74, € 8,00). Pur trattandosi di esercizi ermeneutici, c’è da dire subito che un maggior controllo storico avrebbe giovato a quelle che si presentano subito come interpretazioni sbilanciate verso Heidegger. I due scritti, più che gettare luce o suggerire elementi per capire il rapporto tra Celan e Heidegger, non fanno altro che rigirarsi nel gergo degli ammaliati dallo stregone della filosofia del novecento del quale Duque e Vitiello qui si mostrano come stanchi epigoni. Frasi come «questo mistico che rifiuta ogni misticismo escatologico, questo poeta che ha annodato escatologia e scatologia» non solo non contribuiscono a comprendere e ad apprezzare Celan, ma ormai neanche più Heidegger.
Il confronto fra il poeta e il filosofo, sia nel saggio di Duque sia in quello di Vitiello è fatto sempre a distanza ed è preordinato ad una congerie di heideggerismi dei quali i due studiosi si dimostrano essere prestigiatori. Mai la citazione di una lettera di Celan a Heidegger, mai la menzione dell’incontro tra i due o il motivo dell’interruzione della corrispondenza. Eppure di libri su questi temi ce ne sono ormai diversi come ad esempio quello di Hadrien France-Lanord, Paul Celan et Martin Heidegger. Le sens d’un dialogue (Fayard, 2004). I due studiosi preferiscono rimandare a orizzonti più larghi dentro i quali ci può stare tutto e il contrario di tutto.
Anche quando poi la propensione al gargarismo filosofico dovrebbe trovare un limite nella citazione di un documento come quello del brano di diario di Heidegger riportato da Vitiello, capita la sfortuna che il documento sia un “falso d’autore”. Ora è vero che Vitiello è stato tratto in inganno dalla mancanza di quella indicazione nella versione dell’articolo riportata nel volume degli Scritti diversi di Ranchetti, però è anche vero che da un conoscitore di Heidegger come lui ci si sarebbe aspettati almeno qualche verifica in più.

Marco Pacioni

Il Riformista, 17 marzo 2011, p. 14 
http://ww2.virtualnewspaper.it/riformista/books/110517/#/14/

giovedì 14 aprile 2011

Alle origini della graphic novel: i taccuini di Spiegelman

 Tra gli anni settanta e ottanta Art Spiegelman lavora a Maus I e II, fumetto che ha per tema una storia famigliare polacca yiddish raccontata a New York e intrecciata con la Shoah. Nel fumetto gli ebrei sono rappresentati come topi, i tedeschi come gatti e i polacchi non ebrei come maiali per parodiare il modo in cui i nazisti definivano queste persone. Quest’opera, nella quale alcuni vedono uno dei primi esempi di quel genere che adesso si chiama graphic novel, ha faticato un po’ prima di essere recepita anche in Europa dove ha sempre pesato di più l’interdetto sulla rappresentazione del genocidio ebraico nella letteratura, nel cinema e ancora di più in una forma di espressione pop qual è quella del fumetto. In Italia, ad esempio, Maus è stato tradotto e pubblicato soltanto nel 2000 (Einaudi). Nel frattempo Spiegelman ha vinto il premio Pulizer (normalmente riservato a poeti e scrittori), è diventato famoso al livello internazionale proprio grazie al suo fumetto sulla Shoah che ne ha rilanciato la fama anche come illustratore del settimanale radical The New Yorker per il quale, fra le altre cose, ha realizzato la copertina dell’edizione del primo anniversario dell’11 settembre.
Spiegelman si è sempre definito un disegnatore rapsodico, incline ad assecondare il fremito per lo scarabocchio su un foglio di carta mentre è al telefono. Un artista che, tra le forme embrionali di abbozzo di disegno su occasionali scatole di fiammiferi e il lavoro finale, non riempie taccuini di schizzi con diligenza e continuità. Anzi, Spiegelman si dichiara atterrito dall’obbligo di tenere in ordine un quaderno che ha iniziato o addirittura di cominciarne uno nuovo. «M’innamoro regolarmente di quaderni nuovi e intonsi, dei loro differenti formati, delle rilegature e dei blocchi di carta che mi fanno cenni promettenti. Riempio una pagina. Se il risultato mi piace, ho paura di farne un’altra e rovinare tutto. Peggio ancora, se il disegno non mi piace metto il quaderno da parte per non imbrattarlo ulteriormente».
Per questi motivi, Spiegelman ha sempre declinato la richiesta di pubblicare suoi quaderni. Fanno eccezione ora i tre taccuini rispettivamente del 1979, 2007 e 1983 di Be A Nose! (trad. it, di Costanza Pinetti, con un opuscolo introduttivo, Einaudi, € 30,00) che finalmente ci offrono la possibilità di entrare dentro il laboratorio di animazioni e storie in tre momenti importanti della sua vita artistica. Il primo sketchbook del 1979 intitolato Be è un vero e proprio diario visivo che Spiegelman tiene quando decide di venire in Europa per fare ricerche in vista della stesura di Maus. Quello del 2007, A (che sta per Autophobia) è invece una sorta di esercizio al quale Spiegelman si sottopone per esorcizzare la sua «nevrotica autocoscienza» e la sua paura di disegnare maturata dall’obbligo periodico delle scadenze alle quali è sottoposto un disegnatore professionista famoso. Il taccuino del 1983, Nose!, fa riferimento al momento di entusiasmo collettivo per la partecipazione alla rivista a fumetti Raw che lo stesso Spiegelman insieme alla moglie Françoise aveva fondato negli anni settanta.        
In tutti e tre questi taccuini, Spiegelman mostra di aver bisogno del là per accordare la sua mano. Il suo è un disegno che necessita di essere provocato. Le sue storie nascono come note a margine che si espandono, da commenti grafici a testi. Spiegelman parte da un segno già dato, da una traccia lasciata da altri. E già da qui si vede il suo forte legame con la cultura ebraica nella quale sono centrali la scrittura e il gesto rituale. Come si vede anche dai suoi lavori “finiti”, in questi taccuini Spiegelman si mostra essere un disegnatore che teme e rifiuta lo spazio predisposto del foglio bianco. L’autore di Maus ha bisogno di ritagliarsi una parte in un posto già occupato da altri segni e scritture per continuare un percorso o cambiarlo. In tal senso, Spiegelman non conosce mai il disegno che si isola sulla pagina e che non sia già intessuto della storia che vuole raccontare. Il suo è un modo di illustrare sociale, come quello di un William Hogarth della graphic novel in cui i personaggi vivono in sé lo stesso processo di mutazione che subiscono come vittime o carnefici nello spazio storico.

Marco Pacioni

il Riformista, 9 apile 2011, p. 12

martedì 22 marzo 2011

Irrappresentabilità tutta da vedere. Shoah e visualità nel libro di Minuz



Alcuni eventi non contribuiscono soltanto a fare la storia, ma anche il modo attraverso il quale ce la rappresentiamo. Con la Shoah è l’idea stessa di rappresentazione ad essere messa in discussione. E come sappiamo dal fin troppo citato interdetto formulato da Adorno secondo il quale non si può fare arte dopo Auschwitz, il genocidio degli ebrei è stato ed è da considerarsi per alcuni e molto influenti personaggi della cultura addirittura inimmaginabile e indicibile.
L’irrappresentabilità dello sterminio degli Ebrei non è stata un paradigma elaborato subito dopo la fine della seconda guerra mondiale e che ha caratterizzato in maniera uguale tutti i paesi europei e gli Stati Uniti. L’idea che lo sterminio non possa essere veramente rappresentato e dunque compreso si afferma nel corso del tempo, in un certo luogo più che altrove e anche in concomitanza con la ricezione e applicazione di teorie estetiche elaborate indipendentemente da quell’evento storico. Quelle alle quali si fa riferimento sono le teorie che accompagnano le pratiche artistiche del modernismo che ha privilegiato il come sul che cosa rappresentare, fino ad arrivare nei casi più estremi – avanguardie e heigh modernism – ad un’arte non comunicativa nella quale l’espressione e l’evocazione si impadroniscono del contenuto fino a renderlo irriconosciblile o fantasmatico.
Come ricostruisce il fondamentale libro di uno dei migliori studiosi di cinema in Italia Andrea Minuz, La Shoah e la cultura visuale. Cinema, memoria, spazio pubblico (Bulzoni, pp. 222, € 22,00), l’interdetto visivo alla rappresentazione dello sterminio degli ebrei si afferma progressivamente negli anni sessanta (ben dopo dunque che si era iniziato a produrre documentazioni storiche, opere letterarie e cinematografiche) per stabilizzarsi successivamente ed avere come epicentro la Francia. Al contrario, negli Stati Uniti si afferma una cultura visiva della Shoah che segue una strada opposta. Non solo a favore della rappresentazione, ma addirittura della divulgazione di essa. Ne è esempio la serie televisiva Holocaust trasmessa dalla NBC alla fine degli anni settanta e che negli anni seguenti sarà trasmessa anche in Germania dove per anni ha costituito la più rilevante fonte di rappresentazione popolare dello sterminio ebraico.
Uno dei pregi del libro di Minuz è quello di individuare non solo chiaramente i passaggi che hanno determinato il percorso storico del rapporto fra cultura visiva e Shoah e le differenze fra Europa e Stati Uniti riguardo questo argomento, ma anche e soprattutto come questi due modi di recepire e restituire quell’evento storico si sono influenzati escludendosi ed incontrandosi nello spazio pubblico e soprattutto su come essi sono stati tradotti nell’architettura. L’analisi condotta sulle strutture formali e narrative dei monumenti e musei della Shoah fra Europa e Stati Uniti (nel libro di Minuz c’è anche un’appendice sul progetto del museo della Shoah di Roma), anche in ragione della specificità del linguaggio architettonico che obbliga in molti casi a rendere più palesi scelte formali e contenuti che nel cinema, nella televisione e nella scrittura rimangono più impliciti, ha contribuito a determinare meglio divergenze e convergenze dei due modelli visuali americano ed europeo della Shoah e a dare la possibilità all’autore di formulare un giudizio politico culturale complessivo su di essi. In tal senso va senza dubbio riconosciuto il merito a Minuz di essersi assunto la rischiosa responsabilità intellettuale di  esprimere un giudizio sui due modi europeo-francese e americano della rappresentazione dello sterminio. La predilezione dell’autore va al modello americano rappresentato dal film di Spielberg perché «Shindler’s List non segna soltanto l’innesto definitivo dell’Olocausto nella cultura americana, ma anche la ricollocazione in un orizzonte transnazionale della produzione memoriale della Shoah» rispetto alla quale la strategia europeo-francese «appare come un progetto di retroguardia».
Uno dei momenti più significativi della ricostruzione storica di Minuz è l’aver rilevato l’importanza della trasmissione televisiva del processo Eichman nel 1960 – 1961 in Israele. «Il primo processo ripreso in diretta dalle televisioni di tutto il mondo» che determina «una nuova sensibilità collettiva nei confronti della testimonianza». Nuova sensibilità che si traduce negli Stati Uniti in incentivo per la fiction narrativa e il film melodrammatico e in Europa in opere testimoniali evocative e anti-narrative. Il risultato di questa gestazione e confronto a distanza fra il modello europeo-francese e quello americano è l’affermarsi di una polarizzazione che vede da un lato il film di Steven Spielberg, Shindler’s List e dall’altro quello di Claude Lanzmann, Shoah. Ma fra Lanzmann e Spielberg la ricezione dello sterminio ebraico si era espressa anche in altre forme e generi visivi. Nel considerare questi, ciò che è significativo per la ricostruzione che offre Minuz, è che l’estrema differenza che c’è per esempio tra la serie televisiva Holocaust, il film di Rivette, il fumetto Mauss di Art Spiegelman, i film del genere nazi-sex-ploitation (fenomeno tutto italiano) e più in generale la trasformazione della parola “olocausto” in etichetta da utilizzare indiscriminatamente ogni qual volta ci sia la sensazione di avere toccato un eccesso di aberrazione hanno in comune proprio il giocare in vario modo con il paradigma dell’irrappresentabilità e di trasformare quest’ultimo in quello che Minuz definisce «un insieme via via diventato esso stesso oggetto di gioco di transazioni e dissimulazioni per affermare e riscrivere ciò che inizialmente era stato negato». 

Marco Pacioni
il manifesto, 2 marzo 2011, p. 12